Da tempo il padre è stato esautorato. Nella società post edipica, il nome del padre sembra essere stato cancellato per lasciare spazio all’immaginario di un mondo piatto, senza asimmetrie cioè senza autorità.
Il padre allora si sbiadisce per diventare mimeticamente l’eterno ragazzino. La sindrome di Peter Pan colpisce tanti maschi che sembrano incapaci di assumersi le responsabilità che comporta l’età adulta. Un passaggio che si compie solo nel momento in cui si riconosce di essere inscritti nel legame originario tra le generazioni, tra chi è venuto prima e chi deve arrivare poi.
Oppure, all’estremo opposto, la reazione alla cancellazione porta al padre violento. Che nasconde la tragedia della sua fragilità e della sua debolezza distruggendo tutto ciò che lo circonda, a cominciare da ciò che ama più di ogni cosa, la sua stessa famiglia.
In una società che si è vantata di essere senza padri né maestri questi due approdi, entrambi problematici, non sono sorprendenti.
È in questa cornice culturale che ci ritroviamo ad affrontare tempi tenebrosi. Prima il covid. Anche se sembra che ce ne stiamo dimenticando, solo due anni fa, in questi mesi primaverili, eravamo in lockdown, terrorizzati da un virus che non conoscevamo. E che ha scombussolato le nostre vite per molti mesi.
E adesso – quasi che la pandemia non bastasse – proprio quando, grazie al vaccino, cominciavamo a domare quella minaccia, ecco la guerra che esplode nel cuore dell’Europa. Proprio qui, a qualche migliaio di chilometri da noi. Concreta, realissima, crudele. Un nuovo shock che proietta lunghe ombre sul futuro che ci attende.
Di che tipo di padre ha bisogno questo tempo?
Non mi sento in grado di rispondere. A questa domanda tanto difficile, la risposta dobbiamo cercarla tutti insieme. Nei prossimi mesi, nei prossimi anni.
Ciò che mi sento di dire è che mai come oggi abbiamo bisogno del padre che non abbiamo ancora avuto.
Prima di tutto qualcuno che sia sì un padre, ma capace dì rinunciare a essere anche un padrone. Un padre, cioè, che non ha la sua legge da imporre. Che non pretende l’obbedienza. Che non vuole dominare l’altro. Ma che è capace di ammettere gli errori suoi personali e della generazione a cui appartiene.
Un padre, cioè, capace di essere una porta, che inquadra la realtà, che dà una forma alla vita, ma che non dimentica che il suo destino è quello di essere attraversata. Perché ogni esperienza e ogni conoscenza sono provvisorie e parziali: è, infatti, proprio attraverso il limite della propria vicenda che è possibile far trasparire un’apertura verso qualche cosa che ancora non c’è, che non si conosce, che non si possiede.
Un padre che resiste, che si oppone al male e alla violenza dilagante del mondo. Alla guerra, alla mafia, alla corruzione, al malcostume. A tutto ciò che ci atterrisce. Un padre, cioè, fedele alla propria storia, alla propria matrice, pagando di persona quando è necessario. Senza falsi eroismi ma anche senza false ipocrisie.
Un padre che è capace di piangere di fronte al male che c’è nel mondo e rispetto a cui ci sentiamo tutti impotenti. Ma che sa, al tempo stesso, che l’ultima parola è sempre dell’amore. Che non è la retorica stucchevole del volersi bene, ma la capacità di prendersi cura, che è poi concentrazione, intelligenza, conoscenza, affezione. Che non sopporta l’incuria e la superficialità, e che è capace di inseguire nel silenzio un risultato che forse non arriverà.
Riesco a intravvederlo qui il segreto di una nuova paternità. Il padre come testimonianza concreta di una responsabilità che non ha fondamento. Proprio lui che non è nemmeno certo del legame biologico. Ma questo, come sapeva Giuseppe, non cambia nulla, anzi. Il padre, contrariamente a come lo abbiamo troppo spesso rappresentato, è l’anello debole – e proprio per questo fortissimo – che fonda la sua forza nella sua fragilità costitutiva.
L’unica legge che il padre di oggi può rappresentare – di fronte al dilagare di tanta violenza generata dai maschi – è quella di uno sguardo capace di rendere possibile la vita.
Mauro Magatti
Mauro Magatti (1960), sociologo ed economista, è professore ordinario di Sociologia presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Dirige il Centro di Ricerca ARC (Centre for the Anthropology of Religion and Cultural Change) ed è editorialista del «Corriere della Sera».